domenica 9 ottobre 2016

Fumo, racconto di Paolo Calabrò: nell'antologia Io scrivo per voi, a cura di Andrea Franco

Racconto pubblicato nell’antologia digitale Io scrivo per voi, a cura di Andrea Franco. L'antologia è acquistabile su Amazon.




Fumo
di Paolo Calabrò

Non avevo mai fumato. Quel giorno andai da Alberto, perché era uno fuori dal giro, ci conoscevamo poco, non mi avrebbe fatto domande. Gli chiesi di insegnarmi, facendo scivolare una stecca sulla panchina, verso di lui.
«Io ci guadagno questa» mi disse.
Feci di sì con la testa.
«Fumare fa male — disse ancora. — Tu che ci guadagni?»
Quel giorno imparai che tutti fanno domande. Ma non gli risposi, perché non avrebbe capito: si capisce solo quello che si ha dentro, e nessuno aveva dentro quello che ho io. Gli chiesi di accendermi una sigaretta. Dice che il fumo fa male: forse Alberto aveva ragione. Eppure io mi sentivo benissimo.

Osservavo Mara da settimane. Da anni, veramente. Quando si ama una donna come la amavo io, si resterebbe a guardarla per tutta la vita. Alta più di me, capelli lunghi che non scioglieva mai, aveva cominciato prestissimo a fare un lavoro che l’annoiava: nessuno può divertirsi a vendere schede telefoniche. In più, fra un cliente e l’altro, la noia del tempo che non passava mai. Se ne stava all’esterno del negozio, appoggiata alla vetrina, teneva sempre una sigaretta in mano, chiesta al primo capitato; col braccio steso lungo il fianco, e l’altra mano a reggere il gomito, come se le facesse male, o stesse per scappare.
Quella mattina fui io a capitarle davanti.
«Tu che ci fai da questa parte della città?» disse, sorpresa.
«Dall’altra fumano tutti da soli. Fammi compagnia» risposi, aprendo il pacchetto con dentro l’accendino e l’ultima sigaretta.
La accesi e gliela passai. Aspirò. Una volta. Due. Senza parlare. Me la porse. La presi fra le dita come se fosse di alabastro. La misi in bocca e per la prima volta sentii il sapore delle sue labbra sulle mie, lo feci scendere in gola attimo dopo attimo, come se ognuno di quegli attimi dovesse durare tutta la vita.
Gliela diedi di nuovo. Ormai sapevo quello che volevo. E ne volevo di più.

Avevamo cominciato a uscire insieme — io, lei e Sergio — a tredici anni, quell’età in cui si è tutti amici di tutti. Ora, dieci anni dopo, Sergio era il suo ragazzo. Io ero ancora suo amico. E lei fumava a scrocco ogni volta che poteva, perché lui le piantava una storia al solo sentirne parlare.
«Perché non lo affronti?» le avevo detto una volta, quando i nostri incontri accanto alla vetrina erano ormai diventati l’affare di ogni giorno.
«Perché mi scoccia».
Sapevo a che si riferiva. Il brutto dei tipi con le idee troppo chiare è che, per qualche motivo, pensano che dovrebbero essere tutti uguali a loro. Mara, invece, le idee non le aveva affatto chiare; eppure a me piacevano. Tutte.

Dopo il lavoro, al solito pub, Sergio le ordinava una birra piccola “per non esagerare”. Noi aspettavamo che lui andasse in bagno, per fumarci la nostra sigaretta insieme.
«Una di queste sere, potresti anche portarne due» mi disse una volta.
«Impossibile — le risposi — se no, quando tornerà, ti troverà con la sigaretta in mano. Dobbiamo sempre dire che sono io a fumare, e che tu hai fatto giusto un tiro dalla mia».
Aspirò di nuovo, mi passò la sigaretta e si portò le mani dietro alla testa, senza smettere di guardarmi, né lentamente né troppo in fretta, con un movimento — come dire — perfetto. Poi fece ciò che non le avevo mai visto fare: si sciolse i capelli, posando il fermaglio nella borsa.
“Bugiardo, vigliacco — mi dicevano i suoi occhi. — Se vuoi qualcosa di più, te lo devi prendere”.
Era incantevole, ammaliante, ipnotica. Ma si sbagliava. La donna dell’amico è sacra, almeno finché è sacro l’amico. E io, del resto, avevo già quello che volevo da lei: la sensazione smaccata che quel tavolo fra noi si assottigliasse sempre di più, boccata dopo boccata. E che un giorno le sarei stato vicino come nessun altro era mai riuscito a essere.

Prendemmo sempre più spesso a fumare, a bere, anche a sballarci, qualche volta. Facevamo in due quello che non avremmo mai fatto da soli, né con altri. Anche quando esageravamo, esageravamo insieme, e ognuno di noi aveva la sensazione che il compagno avrebbe fatto da sponda, facendo in modo che tutto rimanesse com’era sempre stato.
Poi venne l’eyeballing. All’epoca andava molto fra i giovanissimi, si versavano il whisky negli occhi, convinti che così l’alcol si assimilasse più in fretta, andando subito alla testa. E la testa in quel modo la perdevamo anche noi, che giovanissimi non eravamo più, per quanto io continui a credere che il merito fosse più di quei cinque o sei Manhattan che ci scolavamo dopo.
In quel periodo uscivamo da soli, lei e Sergio si erano presi una pausa.
«Perché non lo lasci?» le chiesi una sera: un po’ come provocazione, un po’ perché proprio non riuscivo a capire come facesse a mandarla ancora avanti.
Non mi rispose, ma a ben pensarci non era difficile capire che per lei Sergio, figlio del notaio Ranieri, era un po’ come il primo premio alla lotteria: se non lo becchi, pazienza; ma se ti capita, ci vuole un bel fegato per sputarci sopra.
Al nostro quarto eyeballing subii un’irritazione della cornea che mi mise a letto bendato per più di quindici giorni. Il medico prima di andarsene mi disse — alla presenza di Sergio e Mara, che intanto avevano ricucito ed erano venuti a trovarmi a casa — che la storia dell’alcol che si assimila più velocemente… era una balla; e che per un pelo non avevo perso l’occhio. Io, appena Mara si allontanò un attimo, ne approfittai per dire a Sergio: «È il prezzo da pagare per un certo livello di intimità». Ero sotto l’effetto degli anestetici, e non mi rendevo conto di quello che dicevo; per fortuna quella roba mi impastava anche la voce, e lui non capì.
Durante tutto il tempo che sono rimasto fermo a letto, tornavo ogni volta col pensiero a quel bicchiere dal bordo levigatissimo che lei si era appena strofinato sul bulbo oculare, sentivo ancora l’eccitazione di quel liquido versato nell’incavo della mia palpebra inferiore, che — scendendo — era come se me la portasse dentro. Non l’ho mai dimenticato. Credo che non lo dimenticherò mai.

Quando ci rincontrammo al pub, dopo la convalescenza, sembravamo appena usciti da scuola: tutti composti, compìti, quasi in imbarazzo. L’eyeballing, in un batter d’occhi, era passato di moda, e nessuno di noi ne parlò più. Quella sera lei aveva indossato un vestito che — oltre alla quasi totalità delle gambe — le lasciava scoperte le spalle, e anche un’abbondante porzione di quello che c’era sotto: si notava il neo fulvo tra i due seni, a sinistra. E lei non faceva che tirare respiri lunghi, profondissimi, come se a tutti i costi volesse attirare l’attenzione. La mia.
Me ne resi conto dopo: per tutto il tempo, non avevo fatto altro che pensare al momento in cui, Sergio lontano, avrei preso la fiaschetta di whisky dalla giacca — l’avevo appena comprata, per farle una sorpresa — e avremmo bevuto di nuovo insieme, uno dopo l’altro.
Ma l’occasione non capitò, la fiaschetta rimase in tasca e credo che lei, quella volta, abbia preso il mio atteggiamento per disinteresse. Forse fu quello a spingerla, appena fuori dal locale, a dire:
«Andiamo a fare il bagno alla scogliera. Nudi».
Era quasi mezzanotte. Sergio cominciò a sollevare mille obiezioni, e credo che stesse ancora parlando quando le diedi il mio “Sì”, come se non l’avesse chiesto a nessun altro che a me. In quel momento fu mia, come non lo era mai stata prima. “Sergio — avrei voluto domandargli: — tu l’hai mai avuta così tanto?”

Passavamo sempre più tempo insieme: lui non usciva mai di casa, stava preparando l’esame di Stato. Lei mi proponeva cose che non avrei mai immaginato: il mio primo torneo di badminton, qualche trip acido, un maialino in lacrime sgozzato in fattoria (“Così ricorderai qual è il prezzo delle salsicce che ti piacciono tanto”, mi aveva detto). E lei faceva con me tutto quello che voleva: abbiamo guardato da un buco nella parete delle coppie che facevano sesso in camerini illuminati a rosso; ci hanno legato polsi e caviglie al tavolaccio di un lanciatore di coltelli; siamo saltati in volo col paracadute…
E mille bagni di mezzanotte abbiamo fatto da allora. Una volta si finse infermiera, in un ambulatorio in cui il medico non era ancora arrivato, e fece un’iniezione al malcapitato che era lì per la visita, mentre io — fuori alla porta — controllavo che nel frattempo non arrivasse nessuno. Nemmeno sapeva cosa ci fosse, in quella siringa. Non le feci neanche una domanda.
E continuavo a esserci, sempre, in ogni occasione, non la perdevo di vista un solo attimo, sapevo perfettamente — istante per istante — dove si trovava, cosa faceva, quali rischi correva. Qualche volta ho perfino pensato di fermarla. Non l’ho mai fatto. Nemmeno quando andò con quel tale che aveva adescato sulla strada, in macchina, per soldi. Di ritorno, dopo una mezz’ora, mi disse:
«Perché stai sempre con me?»
«Anche tu stai sempre con me» risposi.
«Ma io ci guadagno questi — obiettò, sventolando le banconote ricevute dal tizio. — Tu che ci guadagni?»
Niente, lo sapevo, ci avrebbe mai separati.

Ma mai avrei pensato di togliertela, Sergio.
La nostra relazione avrebbe resistito all’interrogatorio di ogni conoscente (“Vi siete mai baciati?”), di ogni prete (“Avete mai desiderato, in cuor vostro, di commettere atti impuri?”), perfino al tuo, amico mio (“Insomma, avete scopato, sì o no?”). Ma io e Mara eravamo amici, lo sapevano tutti. Lo sapevi anche tu. Solo che nessuno di voi sospettava quanto.
Eppure, togliertela sarà un attimo. Non lo faccio apposta. No, non è un alibi; non è una scusa. Non è nemmeno perché non so proprio come spiegare. Non potrò evitarlo, questo sì; ma non starò qui a dirti che è successo contro la mia volontà. Non sarebbe vero. È che a Mara non si può dire di no. Lo sai. O forse non lo sai, perché solo chi l’ha voluta quanto l’ho voluta io, può capire di cosa sto parlando. È lei che ho avuto in mente tutta la vita, è lei che ho sognato tutte le notti, anche quelle senza polluzioni. È lei che ho davanti agli occhi in questo momento, nonostante sieda a fianco a me mentre sfrecciamo contromano in tangenziale. Siamo bevuti, sì, ma non più del solito. È successo semplicemente che, una volta in auto, lei mi ha detto che non l’avevamo ancora fatto. Aveva ragione. Così sono partito. E, per la verità, pensavo che fosse più difficile: invece basta tenere ben fermo il volante e tirare dritto, ché le auto si scansano da sole.
Ormai è un pezzo che sono alla guida. Mara accanto a me ride e beve dalla mia fiaschetta; forse nemmeno sa che non ci saranno altre volte come questa. Non ci sarà nessun’altra volta. Sarà un attimo: quest’attimo ultimo nel quale — non so se ti consola — la tolgo a te, ma anche a me, e a chiunque altro, la tolgo al mondo intero. Quest’attimo in cui continuo a vederla, di fronte, mentre mi guarda come quella sera, e mi dice: “Vigliacco, bugiardo. Se vuoi di più, devi prendertelo”.
Di colpo, il fragore ci comprime in una posa micidiale; poi ogni obiettivo si chiude, altro non resta che un’istantanea scattata troppo in fretta. E morta lì.

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Collabora all'Opera Omnia di Panikkar e dirige la collana di filosofia "I Cento Talleri" con Diego Fusaro