lunedì 30 maggio 2011

La tecnologia può farci male? Riflessioni su 5 miti della narrazione scientifica del mondo

scritto per il blog di Dario Salvelli


Accolgo oggi, con grande piacere, l’invito dell’amico Dario a scrivere per questo blog un articolo sulla tecnologia, riprendendo le considerazioni fatte lo scorso 14 maggio presso la Libreria Feltrinelli di Caserta, dove ho presentato il mio libro su Raimon Panikkar, dal titolo:
Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (ed. Diabasis, 2011). Lo farei cominciando proprio dal titolo: la tecnologia può farci male? A tutta prima verrebbe da rispondere di sì: chiunque di noi abbia a che fare quotidianamente con un minimo di oggetti tecnologici ne conosce bene limiti e conseguenze. Chi utilizza un telefono cellulare sa bene che
oltre la comodità c’è il rovescio della medaglia: l’obbligo di averlo sempre con sé (non si provi a negarlo: chiunque lasciasse il telefono a casa, anche solo per sbaglio, verrebbe certo tacciato di “essersi reso irreperibile”). Del resto, lo stesso telefonino - dalle sembianze innocue - ha a che fare con grandi quantità di onde elettromagnetiche e lo portiamo spesso a contatto con la nostra testa: studi recenti stanno approfondendo il sospetto che ciò possa essere pericoloso per il cervello e consigliano giustamente per precauzione di tenerlo lontano dalla portata dei bambini. Per non parlare delle catastrofi tecnologiche planetarie degli ultimi anni - quella petrolifera nel Golfo del Messico che ha indoviduato precise responsabilità della BP nonché quella nucleare in Giappone che coinvolge la TEPCO - oggi per così dire ammantate del fregio di “incidenti legati all’errore umano”, quasi come se la tecnologia non ne fosse intrinsecamente responsabile, o meglio, come se il fattore umano non fosse intrinseco alla tecnologia.
Ma non vorrei parlare di questo, bensì di un altro aspetto, più generale, della questione: quale danno provoca la tecnologia all’uomo, al di là di ogni danno materiale, di ogni incidente? La tecnologia - per il solo fatto di esistere nel mondo umano - ci rende forse migliori o peggiori? C’è qualcosa da cui dovremmo stare in guardia?
Proverò a rispondere da un punto di vista filosofico, prendendo l’abbrivio da un saggio di Oswald Spengler del 1931, tradotto in italiano con il titolo L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine (ed. pianoB, 2008). Le citazioni ovviamente non hanno valore di suggello, né sono le uniche possibili; d’altro canto me ne servo come traccia per tenere integro il discorso, nonché come approfondimento (che consiglio) a chi volesse affrontare la questione in maniera più sistematica. Cercherò di mostrare come l’idea che abbiamo oggi della tecnologia (ma anche della scienza, della democrazia, dell’economia) sia in buona parte illusoria e come da ciò derivi una sovraesposizione alla tecnologia che può limitare la nostra libertà, fuorviare la nostra percezione, renderci - senza che riusciamo ad accorgercene - diversi da ciò che siamo e vorremmo essere. Questo mio piccolo articolo vorrebbe contribuire alla nostra presa di consapevolezza del reale significato di certe cose delle quali rischiamo all’oscuro perché nostro malgrado le diamo per scontate, abituati come siamo a credervi ciecamente e in maniera “automatica”, per così dire, tanto che nemmeno crediamo di credervi: e questo accade perché, vedremo subito, siamo talmente immersi nella visione delle cose che la tecnologia ci dà, da non riuscire ad assumere più alcuna distanza critica, fino a ritenere che la visione tecnologica, appunto, sia l’unica possibile (l’unica “reale”).

La narrazione tecnologica del mondo
Ogni epoca ha avuto la propria narrazione del mondo. I Greci antichi avevano la narrazione della filosofia (che spiegava tutta la realtà a partire da un principio primo, l’arché); nel Medioevo la narrazione dominante era quella cristiana, in cui - dando per scontato che Dio esistesse e che governasse saggiamente il mondo - non restava che dar conto della condizione umana in accordo con la verità rivelata dalla Scrittura. Ogni epoca ha insomma avuto un proprio modo per concepire razionalmente e il più possibile coerentemente tutto ciò che esiste, in una visione unica, ordinata e possibilmente rassicurante. Noi viviamo nell’epoca del trionfalismo scientifico e tecnologico; cioè nell’era in cui ciò che c’è da sapere è affidato agli esperti e in cui anche uno yogurt viene venduto da tizi in camici bianchi che ci dicono quanto faremmo bene a mangiarne. Nell’era in cui tutto ciò che non è scientifico, non è. I sentimenti: affari privati. La poesia: roba da bambini. La solidarietà: ingenuo residuo di un precedente stadio evolutivo che contrasta con la logica ferrea del “gene egoista” (Dawkins). Insomma, tutto ciò che vediamo oggi, lo vediamo con gli occhi della scienza (e della tecnologia: sebbene scienza e tecnologia non coincidano, né nella teoria né nella prassi, appare evidente che il loro destino sia legato inestricabilmente intorno a un procedere comune. Sarebbe materia per un approfondimento ben più ampio. Nel seguito, intenderò il termine “tecnologia” non esclusivamente come sapere tecnologico, né come processi o prodotti tecnologici, ma appunto come orizzonte generale di comprensione delle cose. Per questo stesso motivo, utilizzerò indifferentemente i termini “tecnologico” e “scientifico” nel seguito, soprattutto nelle Conclusioni).
Nasce così il “mito” della tecnologia, al cui interno ci ritroviamo a credere cose quanto meno dubbie o addirittura insostenibili, ma che appaiono coerenti se viste dall’interno. Osserviamole da vicino (le citazioni tra virgolette che seguono sono tratte dal libro di Spengler citato).

Credenza n° 1: la tecnologia permette di risparmiare lavoro
Crediamo che la tecnologia comporti la diminuzione del lavoro dell’uomo. È un mito che risale almeno a Marx, il quale prevedeva che un giorno le macchine avrebbero raggiunto un livello di sviluppo talmente elevato da essere praticamente autosufficienti (“l’uomo non dovrà far altro che spingere il pulsante d’avvio o di stop”). Ma noi osserviamo l’esatto contrario: se pur diminuisce l’occupazione a causa delle recessioni economiche e della volontà (dissennata) di aumentare i profitti finanziari, non diminuisce certo il carico di lavoro di quelli che continuano a lavorare: si lavora più di prima, un uomo solo si ritrova a fare il lavoro di più persone, e in più aumenta il livello della pretesa (perché, se da un lato la tecnologia aiuta a velocizzare certe operazioni, dall’altro spinge continuamente verso l’innovazione, facendo dunque aumentare il numero delle prestazioni e dei servizi che ci si aspetta dal lavoratore. Si prenda l’esempio lampante della Pubblica Amministrazione: è innegabile che sia più rapido emettere certificati con il computer anziché scriverli di proprio pugno; ma al contempo, il computer introduce i “certificati online”, quindi lo sportello virtuale al cittadino, quindi la firma digitale ecc. Il singolo operatore che scriveva certificati a mano, lavora oggi paradossalmente molto più di prima). Spengler si era accorto del problema già 80 anni fa:

«non è vero che la tecnica umana risparmi lavoro. È proprio dell’essenza della tecnica umana, mutevole e individuale, in contrasto con la tecnica generica degli animali, il fatto che ogni invenzione contenga in sé la virtualità e la necessità di nuove invenzioni, che ogni desiderio realizzato ne produca mille altri, che ogni trionfo sulla natura stimoli a trionfi maggiori. L’anima del predatore-uomo è insaziabile» (pp. 79-80).

Oggi abbiamo difficoltà a rendercene conto non perché non sia sotto gli occhi di tutti, ma perché alle proprie convinzioni è difficile rinunciare, soprattutto quando non è necessario: anche il terzo millennio ha i suoi dogmi, e uno di essi è che “la macchina lavora al posto dell’uomo”. Vi crediamo senza condizioni, almeno fino a quando non guardiamo le cose abbastanza da vicino da riuscire infine a metterle in discussione.

Credenza n° 2: la tecnologia non provoca conseguenze all’ambiente (o, almeno, è in grado di porvi rimedio)
Viviamo in un mondo finito. A volte non si capisce bene cosa si voglia intendere con questa espressione. Intendiamo questo: che il numero di alberi piantati si può contarlo e, una volta contato, il numero è quello. Similmente, si può contare il numero di ettari di terreno da destinare al pascolo. Non si possono creare alberi o ettari dal nulla. E se si decide di piantare un albero in più, ci sarà meno spazio poi da destinare al pascolo. In altri termini: non è possibile aumentare contemporaneamente le quantità di tutte le risorse presenti sulla terra; ad ogni aumento da una parte corrisponde una diminuzione da un’altra parte (e ciò per quanto si cerchi di potenziare, ottimizzare, razionalizzare la resa del terreno: a un certo punto lo spazio finisce e basta, e non si può piantare un albero in testa a un altro albero).
Se è chiaro questo, sarà altrettanto chiaro che l’idea di una “crescita infinita” (come quella teorizzata dall’economia capitalistica) è assurda. Non è un problema di consumi domestici, ma di consumi industriali: è l’industria capitalistica (la tecnologia) a risucchiare la stragrande maggioranza delle risorse energetiche, idriche (si pensi solo a quanta acqua è necessaria a raffreddare un unico reattore nucleare - e nel mondo ce ne sono circa 450 all’opera), materiali. Ci accorgiamo che la crescita non può essere infinita quando ci sbattiamo il muso contro: secondo le stime del grande gruppo assicurativo Munich Re (e non dei “soliti ambientalisti”) il 2010 è stato un anno “catastrofico”, che ha visto il succedersi di 950 catastrofi naturali in tutto il mondo, legate per il 90% ad “eventi climatici estremi” (cioè al clima impazzito anche a causa della condotta dell’uomo). Il rapporto Munich Re 2010 individua un trend di crescita nel numero delle catastrofi naturali ed un preciso legame con la degenerazione climatica: ergo, questo modello economico di sviluppo (che ha provocato nel solo 2010 circa 290.000 morti e danni per oltre 130 miliardi di dollari) non è sostenibile. Il fenomeno era già visibile (anche se non con la chiarezza che abbiamo oggi) negli anni ’30:

«la meccanizzazione del mondo è entrata in una fase di pericolosa supertensione. [...] Si sono verificate mutazioni del clima che hanno minacciato l’agricoltura di intere popolazioni. Numerose razze di animali, come il bufalo, sono state quasi completamente distrutte; intere razze umane, come i nativi nordamericani e australiani, sono pressoché scomparse. Tutto il mondo organico soccombe all’organizzazione che va diffondendosi. Un mondo artificiale pervade e avvelena il mondo naturale» (p. 98).

Come possiamo ancora parlare nei dibattiti televisivi di “crescita del PIL”? Semplice: o stiamo già prevedendo che dovrà essere qualche altro Paese del mondo (di quelli eternamente in via di sviluppo, che facciamo di tutto per non far sviluppare mai) a pagare con un suo impoverimento il prezzo della nostra crescita, oppure, più semplicemente, siamo talmente immersi nel nostro mito tecnologico da esser convinti che la tecnologia - meravigliosamente e, si direbbe, “miracolosamente” - possa tirarci fuori dall’impasse. Con un ottimismo ingenuo che richiama l’indimeticabile sorriso beota di G.W. Bush quando dichiara al mondo che, sì, c’è la crisi, ma “la crescita è soluzione, non il problema”.

Credenza n° 3: c’è abbastanza tecnologia per tutti, e tutta quella che vogliamo.
Come dicevamo, la tecnologia ha dei limiti, non si può crearne all’infinito. Ce n’è forse abbastanza da dare un telefonino a tutti, ma non ve n’è certo abbastanza da dare un elicottero privato a tutti. La tecnologia nasce come questione d’élite: chi ha la tecnologia vince la guerra; chi ha l’auto più lussuosa vince in società. La tecnologia è il discrimine fra chi può estendere se stesso oltre i propri limiti (assumendo connotazioni altrimenti reputate divine: si pensi alla facoltà di mandare sms all’altro capo del continente), e chi deve arrangiarsi. La tecnologia nasce al fronte del conflitto fra gli individui. Così Spengler:

«la tecnica è la tattica della vita intera. È la forma intima del comportamento nella lotta, ed è ciò che si identifica con la vita stessa. Questo è l’altro errore che si deve evitare: la tecnica non va compresa partendo dallo strumento. Non ha importanza la fabbricazione delle cose, ma il modo di comportarsi con esse; non l’arma, ma la lotta [...] L’uomo è un predatore. [...] L’animale da preda è la più alta forma di vita dotata di libero movimento. In esso c’è la massima indipendenza dagli altri, la massima responsabilità nei propri confronti, la massima solitudine, in esso c’è, al massimo grado, la necessità di conservarsi lottando, vincendo, annientando. Il tipo “uomo” ottiene un alto rango per il fatto di essere un predatore [...] Il mondo è la preda. E, in ultima analisi, è da ciò che trae origine la cultura umana» (pp. 37-48).

L’essenza della tecnologia è il dominio, ottenuto tramite la lotta: lotta condotta contro gli altri, ma anche contro la natura (che l’uomo da Francis Bacon in poi, comincia a non considerare più come “madre” e “amica”, ma come “meretrice” e come “fondo da sfruttare”, quando non addirittura come “nemica” - ne sia un esempio attuale la posizione del noto scientista Enrico Bellone, per il quale “dobbiamo abbandonare l’opinione che esista una profonda alleanza tra la natura e l’uomo”). In quest’ottica, il disastro climatico non è un epifenomeno, ma una conseguenza diretta dell’atteggiamento di conquista intrinseco alla tecnologia e ai suoi scopi:

«l’uomo creatore [ovvero colui che nel perseguire i suoi scopi individuali prende le distanze dal “bene della specie”] si scioglie dal legame con la natura, e con ogni nuova invenzione si allontana di più e più ostilmente da essa. [...] La tragedia dell’uomo comincia perché la natura è più forte. L’uomo resta soggetto alla natura che nonostante tutto abbraccia anche lui, sua creatura. [...] La lotta contro la natura è disperata, e tuttavia sarà condotta fino alla fine» (p. 62).

In effetti, stiamo conducendo la lotta contro la natura a oltranza. Se sarà davvero fino alla fine, lo scopriremo presto.

Credenza n° 4: siamo indipendenti dalla tecnologia (potremmo cioè sbarazzarcene su due piedi senza conseguenze)
Non è affatto così, lo sappiamo bene. Noi dipendiamo dalla tecnologia (in questo senso, l’aumento della tecnologia riduce in proporzione la nostra libertà). Non possiamo smettere di produrre certi farmaci salvavita cui ora ci siamo assuefatti (smettere di colpo ci ucciderebbe): questo vale per molti, moltissimi in Occidente. Di conseguenza, non possiamo smettere di estrarre petrolio (che serve almeno a quelle aziende). Nonché agli ospedali e a tutta l’attrezzatura che utilizzano. Tutto si interseca nel nostro ciclo produttivo. Anche questo era già evidente al filosofo:

«anche solo per mantenere all’attuale livello la massa complessiva di impianti e aziende tecniche, sono necessari, poniamo, 100.000 cervelli eccezionali» (p. 100).

Eppure quando pensiamo alla tecnologia non facciamo che ripetere a noi stessi lo stesso che “ci libera dalla schiavitù della natura”. Non è più così, questo valeva nell’Ottocento. Ora non solo la tecnologia ci serve, ma siamo anche noi in certa misura a servirle (a servirla: noi siamo i suoi servi). Ci sono uomini obbligati a produrre l’energia necessaria affinché certi contenitori sotto pressione negli impianti industriali complessi non esplodano. Essi non possono smettere di lavorare. Il loro destino, in varia misura, è quello di tutti. Le nostre stesse sorti sono intrecciate a quelle della tecnologia che abbiamo messo in piedi.

Credenza n° 5: la tecnologia è neutrale (non cambia cioè intimamente ciò che siamo)
È il punto cui tengo di più, e che maggiormente ho approfondito nel mio libro, citato all’inizio. La tecnologia influenza, plasma, modella, integra, distorce, il nostro stesso modo di pensare. E, di conseguenza, il nostro modo di essere. Concepiamo noi stessi come delle macchine da alimentare, la nostra vita come un progetto da realizzare, il nostro tempo come una scatola vuota da riempire di attività “produttive”: le scelte che compiamo dipendono anche da ciò che pensiamo di noi stessi, oltre che del mondo circostante. Non è questione solo di preservare la nostra capacità di gioire di fronte alla bellezza, alla tenerezza, senza pensare “istintivamente” (per istinto acquisito) alla mera utilità di ogni cosa (per quanto la questione sia tutt’altro che secondaria). La vita che viviamo istante per istante può essere vissuta da noi in autonomia e consapevolezza, oppure in servitù e ottundimento (molto spesso il confine non è così netto, ne convengo; ma la differenza di grado siamo noi a farla): se daremo retta a UniEuro, tanto per fare un esempio facile da riportare alla mente, ci diranno che la nostra è l’era dell’ottimismo e che la felicità consiste nel trovare le marche migliori al prezzo più basso. Non è solo uno slogan pubblicitario: è ciò che rischiamo. Perché ce ne ricorderemo quando saremo giù di corda, e che faremo allora? Correremo al centro commerciale a comprare tecnologia per tirarci su? E quando non sarà più sufficiente? Altra tecnologia? Chi verrà in quel momento a ricordarci che la nostra felicità, umana, è qualcosa di ben più complesso e ricco del semplice possesso di oggetti scintillanti?
La questione è: rimettere le mani sulla propria vita. Non bisogna permettere alla pubblicità (in questo specifico luogo pubblicità, tecnologia e scienza convergono nel creare un immaginario collettivo deformato e totalizzante) di colonizzare la nostra mente. La narrazione tecnologica del mondo non è l’unica possibile (si dovrà almeno concedere che non è esaustiva). Il rischio era già noto:

«la stessa civilizzazione è diventata una macchina che fa o vuole ogni cosa per mezzo di macchine. Non si pensa che in termini di cavalli-vapore. Non si vede più una cascata d’acqua senza trasformarla, con il pensiero, in energia elettrica. Non si vede un paesaggio gremito di mandrie pascolanti senza pensare al valore della loro carne; non si osserva una bella e antica opera artigianale di una popolazione primitiva senza provare il desiderio di riprodurla con un moderno processo tecnico. Abbia senso o no, il pensiero tecnico vuole realizzarsi. Il lusso della macchina è conseguenza di una costrizione del pensiero» (p. 99)

Il nostro pensiero può essere più ampio di quello che siamo abituati (e indotti) a considerare. Se ciò era già intravisibile 80 anni fa, come mai ancor oggi fatichiamo a prenderne coscienza? Il punto è che siamo talmente immersi nel mito della tecnologia da non essere in grado di accorgercene. È come l’aria che respiriamo, e di cui mai ci rendiamo conto. Come l’accento con cui parliamo: solo chi parla diversamente da noi ce ne rende consapevoli.

Conclusioni
Nel 1961 Jurij Gagarin va, primo uomo, nello spazio e da lassù comunica al mondo: “sono in cielo, ma non vedo Dio da nessuna parte”. È il simbolo di una scienza trionfalistica che non solo vuole essere la prima fra tutti i saperi, ma vuole addirittura ridurre tutte le altre forme di conoscenza al nulla assoluto. Simbolo di un modo di pensare e di vedere il mondo con una sola lente: quella della scienza. Ignaro (ma forse più propriamente sprezzante) del fatto che esistano moltissime altre forme di conoscenza, perfettamente legittime e valide, che pur non essendo scientifiche nondimeno sono atte a condurre l’uomo nella navigazione del mare della vita. Nel personaggio di Sheldon Cooper della serie televisiva americane “The big bang theory” è riassunta l’inadeguatezza di questo modo tronfio ma alla fin fine inconcludente di approcciare alla vita: chi crede che il solo sapere scientifico sia esaustivo della conoscenza della realtà, si trova di fatto spiazzato appena mette il naso fuori dal suo laboratorio. Non si vuol certo dire che la conoscenza scientifica sia nulla; si vuol soltanto (ma fortemente) dire che la conoscenza scientifica non è tutto. Gagarin non pecca di arroganza nel sostenere di essere andato in cielo (vi è andato davvero); pecca di ingenua adesione al mito della narrazione scientifica del mondo nel pretendere di ridurre il sapere religioso a una mera constatazione di fatti con il metodo scientifico, confondendo i piani di due cose eterogenee. I saperi vanno armonizzati e se possibile anche fusi, ma certo non appiattiti gli uni sugli altri per amore o per forza.
In definitiva, per riprendere anche l’ultima frase di Spengler citata, la narrazione scientifico-tecnologica del mondo genera un impoverimento del pensiero, costretto ingiustamente a rinunciare alla ricchezza e all’ampiezza dell’orizzonte di senso in nome degli standard della tecnologia. Ma se c’è una vera creatività nell’essere umano, essa è quella di immaginare visioni del mondo diverse e nuove, di dar vita a visioni nuove, e così di creare mondi nuovi (argomento affascinante che purtroppo non è possibile approfondire qui). La tecnologia è tutta da buttare? Direi di no: scrivo da un computer collegato a internet, viaggio in treno, mi lavo con acqua calda e cucino con un forno elettrico. Eppure: questo progresso e questa tecnologia possono essere dannosi per l’uomo? Direi proprio di sì, e forse dovremo nel prossimo futuro imparare che non tutta la tecnologia e tutto il progresso sono buoni solo perché tali. Forse impareremo a distinguere ciò che può essere accolto da ciò che andrebbe rifiutato senza meno. Soprattutto, impareremo forse a prendere consapevolezza dei danni intrinseci del vivere immersi nella narrazione tecnologica del mondo. Non sarà ancora come avervi già posto rimedio; ma come per il gelato, che poi continui a mangiare pur sapendo che non dovresti abusarne, divenirne consapevoli è il primo, necessario, fondamentale passo.

(«DarioSalvelli.com», 30 maggio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Collabora all'Opera Omnia di Panikkar e dirige la collana di filosofia "I Cento Talleri" con Diego Fusaro